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Innovazione, formazione e internazionalizzazione. Tre termini che, nonostante il comune suffisso ne renda “indigesta” la convivenza, dovranno diventare le parole d’ordine del Distretto pratese, il mantra in grado di tracciare la via maestra per uscire dalla crisi. Perché se è vero che il governo, gli enti locali, le banche e chiunque possa farlo, hanno l’obbligo morale di intervenire per aiutare il tessile pratese, è vero anche che il Distretto deve rivedere dalle fondamenta il suo modo di essere e di fare impresa. Un concetto, questo, che comincia a farsi strada tra le forze imprenditoriali più giovani e dinamiche della città, da tempo impegnate nel promuovere un approccio diverso alle problematiche che via via si sono venute a formare. Un concetto che ha bene in mente, ad esempio, Andrea Cavicchi, presidente di Furpile Idea (e già nel nome dell’azienda c’è un chiaro riferimento programmatico), nonché al vertice della Fondazione Museo del Tessuto, vicepresidente del Pin e membro dell’esecutivo dell’Unione Industriale con delega proprio all’innovazione e all’internazionalizzazione.“La crisi del Distretto tessile è soprattutto la crisi di un modello che ha retto, e bene, per molti anni ma che ormai è inadeguato – dice Cavicchi -. Prato ha sempre avuto un deficit di managerialità nella sua impresa. A lungo è riuscito a farvi fronte facendo ampio ricorso all’intuito, alla genialità, alla voglia di fare. Oggi, però, questo non basta più. Il metodo artigianale, dell’innovazione a basso costo, non è più in grado di reggere quelle che sono le richieste del mercato. Per questo, il concetto stesso di internazionalizzazione deve cambiare il suo significato principale: fino ad ora con il termine si faceva riferimento alla delocalizzazione, alla ricerca di produttività e grandi numeri con il minor costo possibile; adesso, invece, bisogna intenderlo come conoscenza di ciò che avviene oltre confine: capire, ad esempio, come gli altri reagiscono alla crisi, andare a scoprire nuovi mercati, farli crescere insieme a noi. Insomma ritrovare la voglia di scommettere sul futuro e di provare ad anticiparlo”.Per fare questo, però, è necessario un’apertura a tutto campo e la disponibilità a mettere in gioco schemi e modelli ormai consolidati. “E’ proprio così – afferma Cavicchi -. Ma non è un’impresa impossibile. Prato ha già solide basi su cui ricostruire. Penso ad esempio ad una risorsa come il Polo Universitario, che finora non è stata sfruttata a dovere, ma che nonostante tutto è riuscito a costruirsi una vita propria, anche se forse troppo staccata dalla città e dal tessuto produttivo. Come Pin abbiamo lavorato molto nello sviluppo dei laboratori, adesso bisognerà far sì che Università e impresa si incontrino, perché dalla scintilla potranno nascere solo risvolti positivi per la nostra industria. E sempre dal Pin dobbiamo tirare fuori i manager in grado di gestire il futuro del tessile. Ci sono poi esperienze da far fruttare meglio, come il Creaf. Strutture che svolgono un ruolo fondamentale nella fomazione, come la Fil. O tanti altri tentativi che vanno nella giusta direzione dell’innovazione. Il problema, semmai, è dare un’unica regia a tutto questo, in modo da evitare i doppioni e gli sprechi. Qui, credo si giochi una parte importante del futuro della città: nella capacità di trovare un’organizzazione comune e condivisa per tutto quello che riguarda la formazione e l’innovazione. Perché una cosa è certa: se Prato vuole giocare la partita sulla quantità e sul profitto, allora ha perso in partenza; se invece si fa un discorso di qualità e di capacità di interpretare al meglio le richieste dei vari mercati, beh, in quel caso abbiamo gli strumenti per giocarcela fino in fondo. L’importante è saperli usare”.
Claudio Vannacci