Con questo articolo si inaugura la rubrica "I nostri ragazzi e dintorni" che Teresa Zucchi, psichiatra e psicoterapeuta, terrà su Notizie di Prato. La dottoressa Zucchi tratterà di tematiche inerenti il delicato periodo dell'adolescenza e della gioventù. Dai disturbi dell'alimentazione ai rapporti genitori-figli, dalla sfera affettiva alla scuola: questi alcuni dei campi che verranno via via esplorati. La rubrica è anche aperta ai contributi dei lettori che potranno interagire con la dottoressa Zucchi scrivendo alla mail [email protected]
"Dottoressa! Dimmi se ne vale la pena… vale la pena vivere?". E' questa la domanda, a bruciapelo, fatta da un ragazzo di 16 anni, appena seduto davanti a me nel mio studio. Una domanda che è quasi un urlo, o forse un rimprovero.
E' arrivato, ha sbattuto la porta ed è entrato… senza aspettare un mio cenno di invito. Evidentemente non si aspetta più niente da nessuno e ne va orgoglioso. 16 anni racchiusi in una felpa che come un'armatura riveste il corpo fragile e disarmonico, la pelle tatuata per esorcizzare i tanti mostri che abitano la sua interiorità, lo sguardo spento, ancora non arreso, fiammella che esita ad estinguersi. Si siede davanti alla mia scrivania, o meglio, si incastra in modo obliquo esprimendo contemporaneamente il desiderio di stare ed andare, di ascoltare e rifiutare, con quell'affascinante quanto tragica ambivalenza che padroneggia l'animo dell'adolescente. Poi, all'improvviso, esce con questa domanda.
La questione è seria, come lo sguardo e la sua attesa. Non c'e provocazione ma disperata richiesta, esito dell'incessante ricerca del cuore dell'uomo. Qui non si scherza, non si può più eludere domande, far finta di niente. Non si può più schivare quella responsabilità che noi adulti abbiamo troppo spesso evitato vivendo di istanti e di diritti, noncuranti di lasciare traccia a coloro che, confusi e disorientati, sono venuti dietro di noi. La tristezza e la disillusione coprono la spinta vitale in una resa non definitiva. L'incertezza e la sfiducia minacciano, ma non abbattono, la voglia di lottare, di fare, di conquistare.
Abbasso lo sguardo, come un pugno nello stomaco mi arriva la consapevolezza delle nostre omissioni. Non sono contenti i giovani, eppure hanno tutto; li abbiamo ricoperti di quello che ci hanno fatto credere indispensabile per essere felice (dal Woolrich alle Philippe model, dai tablet agli smartphone di ultima generazione). Dominati dall'etica dell'utilitarismo non abbiamo conservato per loro la capacità di vivere intensamente il reale, il gusto di farlo. E ora giustamente bussano al mio studio.
E non è disturbo psichiatrico, non è patologia bensì la rivendicazione di sacrosanti diritti: quello di avere maestri a cui guardare, coerenti e capaci di scelte definitive, adulti che mostrino come affrontare con serietà ed entusiasmo tutta la realtà che si apre davanti. Vogliono, devono sapere se è possibile ancora sperare… se vale la pena andare avanti e verso quali mete. Come naufraghi sopravvissuti alla tempesta dell'edonismo si chiedono se esista anche per loro Itaca o se resta il miraggio di un tempo ormai passato.
Dopo qualche secondo riesco ad alzare lo sguardo e sorridendo gli propongo di accompagnarlo nella ricerca, nel suo viaggio. Si stringe le spalle, tira su con il naso forse per aumentare la percezione di sé in un'atmosfera surreale e dissociante. "Va bene Dott! Lo sai te…" E tira un sospiro di sollievo. Una stretta di mano, guardandosi negli occhi. Non sbatte la porta, esce meno curvo di quando è entrato, meno ripiegato su di sé, e si incammina fuori lasciandomi inondata d'infinita tenerezza.
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