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“Osservatorio crisi aziendali”: il distretto di Prato oltre i numeri. Analisi sociologica e antropologica del territorio


Una ricerca di SenzaFiltro racconta la città e la sua economia attraverso le sue trasformazioni sociali e antropologiche, tra crisi e immigrazione


Alessandra Agrati


Il distretto di Prato visto da un’altra prospettiva, non quella dei numeri, dell’export o della produzione, ma quella antropologica e sociale. È questa la chiave di lettura proposta dalla ricerca “Distretto vedute. Osservatorio crisi aziendali”, realizzata da SenzaFiltro e FiordiRisorse con la collaborazione di Massimo Bressan, direttore di Iris, e di Luca Toscano coordinatore Sudd Cobas. A raccogliere e mettere in relazione le informazioni è stata la giornalista Stefania Zolotti, che ha presentato il lavoro ieri, 29 ottobre, al Centro Pecci .
“Abbiamo scelto di partire il nostro tour da Prato – ha spiegato – perché in pochi conoscono davvero questa realtà. Abbiamo voluto darle una connotazione sociale e antropologica e raccontarla da una prospettiva diversa. Più in generale abbiamo visto che le crisi dei distretti certificati presso il ministero nel 2017 erano 160, oggi sono 56, ma non perché la situazione sia migliorata: si sono persi posti di lavoro. Le crisi ormai non sono più confinate in un distretto, si muovono, e c’è modo di individuare i primi sintomi. Spesso da una crisi si può rilanciare anche un’economia”.
L’analisi antropologica e sociale è stata approfondita da Bressan, intervistato da Zolotti durante l’osservatorio. L’antropologo ha ricostruito le origini dell’immigrazione cinese a Prato:
“Vengono quasi tutti da un paio di province del sud-est della Cina, zone in cui i pratesi erano stati per costruire legami commerciali. Sono arrivati in un momento di crisi per il distretto, quando la maggior parte degli edifici produttivi era dismessa, interi quartieri abbandonati. Inoltre hanno trovato artigiani in cerca di buone occasioni per affittare, dopo aver chiuso la loro attività.” Bressan prosegue con un parallelismo tra imprenditori pratesi e cinesi:
“I pratesi – spiega – non vogliono lavorare per altri, vogliono lavorare per sé stessi, anche dodici o quattordici ore al giorno. Una predisposizione che era già viva nel Dna della città e che è stata poi potenziata dagli immigrati cinesi. A Prato sono coincisi schemi culturali e sociali. Nessuno si è chiesto quale fosse davvero la natura dei fenomeni in nero e illegali, perché si volevano. Non ha senso condannarli e basta: l’abitudine al nero non l’hanno portata i cinesi, hanno trovato un terreno straordinario che facilitava l’opacità di un tessuto economico.” L’analisi di Bressan mette in luce anche gli aspetti positivi del distretto, che fu tra i primi in Italia a istituire un dipartimento di medicina del lavoro negli anni ’70, finanziato da un fondo tra sindacati e Unione Industriali (oggi Confindustria) pari all’1%, destinato a sostenere medicina del lavoro, formazione professionale e servizi come gli asili. Un altro punto di riflessione riguarda le differenze tra la comunità cinese di Prato e quella di Milano, concentrata in via Paolo Sarpi: i milanesi sono più dediti al commercio e al terziario, quindi più inclini all’integrazione con la comunità locale. “A Prato – ha sottolineato Zolotti – i cinesi non votano, invece a Milano lo fanno, sostenuti anche dalle rappresentanze della loro comunità. Lo abbiamo visto in occasione della campagna elettorale di Sala.”
Infine, l’analisi del distretto è stata affrontata dal punto di vista sindacale, non quello confederale ma del SuddCobas, che ha fatto della lotta contro lo sfruttamento la propria missione. “Oggi raccontiamo come il distretto stia cambiando grazie anche alla sindacalizzazione dei lavoratori stranieri – ha spiegato Luca Toscano –. È una strada lunga, che ha per protagonisti operai invisibili diventati visibili. Per quanto riguarda la crisi del settore, va sottolineato un dato: “Da quando sono stati introdotti contratti regolari di otto ore per cinque giorni alla settimana, il numero degli operai è aumentato: prima una sola persona lavorava quindici ore al giorno, oggi lo stesso carico è suddiviso tra due lavoratori.”

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