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Certo, c’è la congiuntura e la crisi mondiale, ma i mali di Prato non si fermano qui. E l’elenco di chi non ha fatto niente (o ha fatto meno di quello che doveva) per aiutare il distretto è lungo: l’Ue, il governo, le istituzioni e anche la stessa Unione Industriale. Non ci va certo con il fioretto Alessandro Cocci, titolare del Lanificio Cocci Stefano srl, dal 1936 produttore di semilavorati in cotone, un fatturato annuo di 8 milioni di euro e 25 dipendenti, di cui 4 al momento in cassa integrazione. “Ogni mese vado all’Unione a firmare l’accordo con i sindacati – dice rassegnato -. Danno un appuntamento ogni dieci minuti, sembra di essere in un ambulatorio della mutua”.E dire che Cocci è uno di quegli imprenditori che ha voglia di tutto fuorché di alzare bandiera bianca: basti pensare che nel 2005 la sua azienda ha fatto grandi investimenti in macchinari e infrastrutture, acquistando anche programmi e software. “Ci siamo indebitati, come è logico – commenta – e ora i rating della banche ci stanno penalizzando…”. Ecco, le banche. Uno dei tanti tasti dolenti. “Le banche – ammette Cocci – hanno chiuso i rubinetti al tessile. Ci ritengono ad alto rischio e non danno più un euro. Figuriamoci, poi, se finanziano qualche progetto. Danno credito solo a chi ha soldi e garanzie. Non voglio demonizzare le banche ma è anche vero che Basilea 2 ha messo dei criteri folli e noi ne paghiamo le conseguenze”.Cocci ripete cose che a Prato si sentono dire ogni giorno. Ma che fanno una fatica enorme a varcare i confini del distretto. Colpa di una città, e di una classe imprenditoriale, che ha sempre snobbato la comunicazione. “A Prato nel settore siamo almeno 30mila addetti – dice Cocci -, se aggiungiamo anche l’indotto i numeri crescono ancora. Non mi sembra, quindi, di commettere un’eresia se faccio un paragone con la Fiat. Però della Fiat qualcuno si è sempre occupato, di noi invece no. Anche la Ue poi non ci tutela: del resto il tessile industriale è solo in Italia, non mi sorprende quindi questo disinteresse. Ma il nostro governo? Perché aiuta le banche e l’auto, ma non il tessile? Con una differenza: la Fiat può permettersi di tenere ferme le macchine anche per qualche mese. Noi no: se ci fermiamo arrivano indiani e cinesi e comprano tutto a prezzi stracciati e il know how di una tradizione centenaria va disperso”. E qui Cocci va giù pesante anche con i suoi rappresentanti diretti: “Credo che il distretto avesse tutte le carte in regola per ricevere gli aiuti dall’Ue – dice -, ma non li abbiamo avuti. Vuol dire che i nostri politici e dirigenti di associazioni di categoria non sono stati efficienti come avrebbero dovuto”.C’è poi il problema del made in Italy e della tutela della legalità. Due temi che a Prato sono a livello di emergenza. “Lo sa qual è il vero problema? – dice -. Che a Prato c’è chi produce una camicia da donna a 1,60 euro, mentre a noi costa dieci volte di più. Così possono venderla in Polonia a 5 euro. Ed è sempre made in Italy. Parlo della stragrande maggioranza delle aziende cinesi attive sul territorio, che non fanno una fattura neanche per sbaglio, non pagano i contributi e se ne fregano di ogni controllo: tanto ogni anno chiudono la ditta e ne riaprono una nuova, così il Fisco, se arriva, non trova più nulla”.Ma quello di Cocci non è solo uno sfogo amaro. C’è spazio anche per delle proposte: “La soluzione non è troppo lontana – dice -. Bisogna tutelare il nostro prodotto e fare un controllo rigido sulle importazioni. La dogana cinese controlla tutto, a volte la merce è bloccata anche per mesi. Da noi arrivano al porto di Napoli migliaia di container dalla Cina, ma quanti vengono controllati? E poi le nostre aziende hanno bisogno di aiuti diretti. Facciamo delle commissioni a livello di Camere di Commercio, cha vanno nelle aziende e vedono cosa c’è dentro, guardano i bilanci e capiscono se un’impresa è in grado di affrontare il mercato. Se la risposta è positiva, allora ecco che scattano gli aiuti. Perché se si vuole salvare il distretto è necessario preservare la filiera produttiva e per farlo bisogna far sì che le aziende sane non chiudano”.
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