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Vasile Frumuzache e Maurizio Spinelli: le storie parallele di due serial killer di donne. A 25 anni di distanza la storia si ripete


L'assassino di tre prostitute nel 2000 viveva a Larciano, a una manciata di chilometri dalla casa dell'uomo reo confesso per le uccisioni di Denisa e Ana Maria. Il criminologo: "A livello statistico, visto che si parla di piccoli centri, non è una cosa che accade spesso"


Nadia Tarantino


Due serial killer in un pugno di chilometri, undici per l’esattezza: a Monsummano Terme abita Vasile Frumuzache, la guardia giurata che ha confessato di aver ucciso a Prato Maria Denisa Paun e a Montecatini Ana Maria Andrei, a Larciano viveva (di lui si sono perse le tracce) Maurizio Spinelli, l’autotrasportatore condannato a 18 anni di carcere per gli omicidi di tre donne, Natalia Topala, Rudina Xelo e Olga Frunze, commessi nel 2000 a Prato, Calenzano e Chiazzano, piccolo centro alle porte di Pistoia. Una coincidenza. Una straordinaria coincidenza geografica da rubricare a curiosità con, però, tratti comuni tra i due uomini a cominciare dal più evidente: le vittime. Donne, giovani, straniere, prostitute. Donne esposte più di altre al rischio, più vulnerabili, più deboli.
A distanza di 25 anni la zona a sud di Pistoia finisce al centro delle cronache per delitti seriali.

Maurizio Spinelli fu arrestato il 10 novembre 2000. Confessò di aver ucciso Natalia Topala, moldava di 22 anni, ritrovata in un campo vicino al cimitero di Chiesanuova il 20 luglio; Rudina Xelo, 22 anni, albanese, soccorsa in fin di vita in via Firenze a Calenzano il 2 agosto; Olga Frunze, 25 anni, moldava, abbandonata nelle campagne di Chiazzano. Tutte picchiate e uccise a coltellate.
Come Vasile Frumuzache, Spinelli commise qualche passo falso di troppo. Agli inquirenti, l’autotrasportatore raccontò di nutrire rancore nei confronti delle persone dell’Est perché vittima di un ricatto ad opera di gente di quella provenienza. Rivelò i particolari dei delitti: come aveva ucciso le ragazze dopo averle abbordate per strada, le coltellate inferte una dietro l’altra in macchina prima di scaricare i corpi dove capitava. E soprattutto confermò di aver venduto il telefonino di Olga Frunze ad un conoscente che, usandolo, aveva lasciato tracce sui tabulati e che, interrogato, fece il nome di Maurizio Spinelli.
Il serial killer fu riconosciuto seminfermo di mente e condannato in primo grado a 23 anni e in Appello a 18 anni e 9 mesi. Condanna scontata da tempo ormai.

Frumuzache come Spinelli. Ventincinque anni dopo. Stesse vittime e stesse zone d’azione.

“A livello statistico è quanto meno curioso – commenta Matteo Vinattieri, sociologo, esperto in criminologia – la ricorrenza di un serial killer nello stesso luogo ha tempi di ritorno molto, molto lunghi, e ancor di più se si parla di due centri piccoli, ristretti”. Al di là del dato geografico, Vinattieri prova a scendere nel dettaglio della personalità del serial killer e lo fa allo stato dell’arte: “L’auspicio è che di vittime ce ne siano soltanto due – dice – questa è necessariamente un’analisi parziale basata su ciò che conosciamo fino a questo momento e che potrebbe modificarsi se si aggiungeranno altre donne. In ogni caso, e vale per la larghissima parte dei casi, il serial killer è una persona che ha avuto traumi in età infantile o adolescenziale, traumi che non ha elaborato, che non ha superato. Traumi che galleggiano nell’inconscio fino a che si scontrano con un fatto scatenenante che può essere di qualsiasi natura”.

Primo elemento: perché quel tipo di vittima? “Quel tipo e straniere – specifica Matteo Vinattieri – donne che più facilmente di altre possono essere prive di radicamento sul territorio, esterne a contesti sociali organizzati. Voglio dire che una donna straniera che appartiene al mondo della prostituzione ha meno probabilità di essere fortemente cercata e di creare clamore mediatico rispetto ad un altro tipo di donna. E’ questo che spinge i serial killer a scegliere vittime in quel contesto, di precedenti ce ne sono tantissimi. Del resto Ana Maria è scomparsa nell’indifferenza generale. Denisa, invece, aveva attorno una rete familiare, di amiche, di conoscenze e questo ha aperto uno spaccato inaspettato per chi l’ha uccisa”.
Ma perché accanirsi così tanto, perché tagliare la testa e soprattutto perché bruciarla? “Si chiama depersonalizzazione della vittima – spiega il criminologo – tagliare la testa significa togliere, cancellare l’identità. E’ una manifestazione di disprezzo”. (nadia tarantino)

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Capalle/Campi Bisenzio (FI)

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