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Ha parlato e ha raccontato molto l'ultimo prestanome che, intestandosi l'azienda di suoi connazionali, è finito in un mare di guai. Non è il primo e non sarà l'ultimo. E' solo uno dei tanti cinesi rimasti impigliati nel meccanismo consolidato delle intestazioni fittizie che servono ai titolari occulti a non figurare, a non rispondere di niente, a non avere responsabilità, a evitare di diventare prede del fisco o, a seconda degli accadimenti, dell'autorità giudiziaria.
Yue Bingqi, 46 anni, agli arresti domiciliari dallo scorso 6 ottobre con l'accusa di sfruttamento della manodopera e favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, si è presentato con il suo avvocato, Giuseppe Nicolosi, davanti al sostituto Lorenzo Gestri e ha ammesso di essere stato il prestanome della ditta di She Jinquan, 47 anni, e del figlio She Menjnan, 24, finiti in carcere assieme ad un parente, Zhuang Xing, 30 anni. Ai domiciliari anche la moglie e madre dei due She, Zhuang Lifang, 41 anni.
C'è intanto attesa per la decisione del Riesame sulle istanze di scarcerazione avanzate dall'avvocato Alessandro Oliva. Una curiosità: gli arrestati non sono stati ancora sentiti perché il carcere della Dogaia non è adeguatamente attrezzato per garantire lo svolgimento dell'interrogatorio di garanzia nel rispetto delle normative anticovid. E l'attesa è anche sulla conferma o meno del sequestro per equivalente che ha 'congelato' la villetta della famiglia arrestata, circa 15mila euro in contanti e un centinaio di macchine per cucire a fronte dell'evasione fiscale accertata nel corso delle indagini.
L'inchiesta, dunque, trova ulteriore ancoraggio dopo l'interrogatorio del prestanome. La lunga e complessa indagine dei carabinieri e della guardia di finanza ha ricostruito un combinato di ditte individuali aperte e chiuse nell'arco di pochi anni; gli investigatori ne hanno contate almeno 17. L'ultima, la Confezione Massimo, sede in via Pisa, è stata quella che, in seguito ad un controllo della Asl, ha fatto partire le indagini. Decine gli operai alle dipendenze delle imprese: cinesi e bengalesi in stato di bisogno, condizione che li avrebbe obbligati ad accettare di lavorare anche quindici ore al giorno per 500 euro al mese, senza ferie, senza permessi, senza riposo. Tra i lavoratori trovati sulle macchine per cucire anche una minorenne, una donna incinta e un uomo malato. Il prestanome avrebbe svelato la modalità e le regole del suo ingaggio: poche migliaia di euro per garantire, secondo quanto ha dichiarato, di assumersi ogni responsabilità per tre anni.
Yue Bingqi, 46 anni, agli arresti domiciliari dallo scorso 6 ottobre con l'accusa di sfruttamento della manodopera e favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, si è presentato con il suo avvocato, Giuseppe Nicolosi, davanti al sostituto Lorenzo Gestri e ha ammesso di essere stato il prestanome della ditta di She Jinquan, 47 anni, e del figlio She Menjnan, 24, finiti in carcere assieme ad un parente, Zhuang Xing, 30 anni. Ai domiciliari anche la moglie e madre dei due She, Zhuang Lifang, 41 anni.
C'è intanto attesa per la decisione del Riesame sulle istanze di scarcerazione avanzate dall'avvocato Alessandro Oliva. Una curiosità: gli arrestati non sono stati ancora sentiti perché il carcere della Dogaia non è adeguatamente attrezzato per garantire lo svolgimento dell'interrogatorio di garanzia nel rispetto delle normative anticovid. E l'attesa è anche sulla conferma o meno del sequestro per equivalente che ha 'congelato' la villetta della famiglia arrestata, circa 15mila euro in contanti e un centinaio di macchine per cucire a fronte dell'evasione fiscale accertata nel corso delle indagini.
L'inchiesta, dunque, trova ulteriore ancoraggio dopo l'interrogatorio del prestanome. La lunga e complessa indagine dei carabinieri e della guardia di finanza ha ricostruito un combinato di ditte individuali aperte e chiuse nell'arco di pochi anni; gli investigatori ne hanno contate almeno 17. L'ultima, la Confezione Massimo, sede in via Pisa, è stata quella che, in seguito ad un controllo della Asl, ha fatto partire le indagini. Decine gli operai alle dipendenze delle imprese: cinesi e bengalesi in stato di bisogno, condizione che li avrebbe obbligati ad accettare di lavorare anche quindici ore al giorno per 500 euro al mese, senza ferie, senza permessi, senza riposo. Tra i lavoratori trovati sulle macchine per cucire anche una minorenne, una donna incinta e un uomo malato. Il prestanome avrebbe svelato la modalità e le regole del suo ingaggio: poche migliaia di euro per garantire, secondo quanto ha dichiarato, di assumersi ogni responsabilità per tre anni.
Corposo il fascicolo dell'inchiesta all'interno del quale sono finite, a titolo puramente conoscitivo e indicative del profilo dell'indagato principale, anche diverse foto dei rapporti istituzionali intrattenuti da She Jinquan, esponente di un'associazione che riunisce i cinesi del Fujian residenti a Prato. Le immagini più recenti risalgono al 19 luglio 2019 e ritraggono l'imprenditore con connazionali di una delegazione del Fujian arrivata in visita a Prato per verificare la possibilità di avviare rapporti commerciali e culturali con la città. Visita e incontri documentati passo passo dagli investigatori.
nt
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