Dovranno comparire davanti al giudice il 22 settembre del 2025 in 161 per quello che si annuncia già da oggi come un processo “monstre” ma – visto le tempistiche – destinato con tutta probabilità a nascere già morto. Oggi il gup di Prato Leonardo Chesi ha infatti rinviato a giudizio quasi tutti gli indagati nell’ambito dell’inchiesta “Easy permit”, nata nell’ottobre 2021, che li vedeva accusati di aver contribuito, ognuno per la propria parte, al sistema che avrebbe consentito il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno a stranieri privi dei requisiti previsti dalla legge. Dal processo sono uscite solo due donne, entrambe italiane e difese dagli avvocati Febbo, Malerba e Badiani. Rinvio a giudizio, invece, per gli altri 161: 12 italiani, il resto cinesi; tra loro commercialisti, consulenti del lavoro, consulenti contabili e impiegati italiani, imprenditori e faccendieri cinesi.
Al centro dell’inchiesta migliaia di intercettazioni telefoniche e altrettante ambientali, una quantità incalcolabile di documenti e certificati, un numero impressionante di persone tenute sotto controllo e identificate. Ci sono voluti 44 faldoni per contenere le quasi 70mila pagine dove viene ricostruito il complesso meccanismo messo in atto dal presunto sodalizio criminale. Ma proprio questa mole enorme di documenti, insieme alla data della prima udienza fissata tra oltre un anno, mette a rischio il procedimento che, visti i numeri, rischia di arenarsi. Il processo si terrà nell’aula bunker del palazzo di giustizia di Firenze.
L’indagine “Easy permit”, condotta dalla guardia di finanza e coordinata dai sostituti Boscagli e Gestri portò a galla una fitta rete di rapporti tra professionisti italiani e imprenditori cinesi che, secondo il convincimento degli investigatori, avrebbe consentito da una parte di fabbricare a tavolino i documenti necessari a chiedere e ottenere il permesso di soggiorno anche a quegli stranieri non in regola con i requisiti (contratto di lavoro, dichiarazione dei redditi ecc.), dall’altra di rendere invisibili agli occhi del fisco le confezioni e i pronto moda presso cui i cinesi risultavano dipendenti. Posizioni lavorative – sempre stando alle accuse – che spesso erano tali solo sulla carta, in aziende intestate a questo o a quel prestanome e, addirittura, qualche volta neppure mai esistite come le due che nel giro di tre anni avevano assunto 339 lavoratori.
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