Non si può negare la cittadinanza italiana solo sulla base di una notizia di reato e senza neppure aver mai accertato l'esito del procedimento. A maggior ragione se tra la notizia di reato e il rigetto dell'istanza sono passati la bellezza di 12 anni, un tempo sufficientemente lungo per riuscire ad avere contezza di quale sia stata la fine di quella notizia di reato. Lo ha detto il Tar del Lazio che ha accolto la richiesta di un cittadino straniero di annullare il provvedimento con il quale la prefettura di Prato, nel 2019, aveva bocciato la sua istanza di diventare a tutti gli effetti cittadino italiano; bocciatura espressa sulla base di una informativa della questura circa una pendenza del 2007 per i reati di percosse, minaccia e furto che rappresentano “indice di inaffidabilità e di una non compiuta integrazione nella comunità nazionale”.
L'uomo, assistito dall'avvocato Massimo Goti, ha chiamato in causa il ministero dell'Interno a cui i giudici della quinta sezione bis hanno ordinato che l'istanza di cittadinanza italiana venga nuovamente istruita per una più ampia e completa valutazione. Va bene – il ragionamento di fondo della sentenza – tenere presente che il cittadino è finito sul registro delle notizie di reato ma poi occorre anche andare a ricercare il finale della vicenda oltre che ricostruirne i contorni, oppure motivare per filo e per segno il diniego. E poco importa che al momento in cui la domanda di cittadinanza italiana è stata presentata – 2015 – lo straniero “ha omesso di dichiarare la propria posizione giudiziaria”: a questa eccezione avanzata dall'Avvocatura dello Stato per conto del ministero, il Tar ha risposto che “i certificati giudiziali richiesti dalla pubblica amministrazione riferiscono in maniera integrale gli eventuali precedenti relativi all'interessato, diversamente da quelli rilasciati su richiesta di parte”. Dunque, è del tutto verosimile – stando ai giudici amministrativi – che il cittadino non sapesse di essere indagato e perciò non lo abbia comunicato.
La difesa dell'uomo ha insistito sul fatto che una notizia di reato non può essere considerata ostativa al rilascio della cittadinanza italiana, e che quella notizia di reato “non si è mai trasfusa in un vero e proprio dibattimento penale con relativa sentenza di condanna”.
Nel corso dell'udienza, i giudici della quinta sezione bis del Tar del Lazio hanno sottolineato che a fronte della domanda di concessione della cittadinanza italiana, l'amministrazione – nel caso specifico la prefettura di Prato – “è chiamata a valutare il possesso di ogni requisito atto ad assicurare l'inserimento del richiedente, in modo duraturo, nella comunità, mediante un giudizio prognostico che escluda che il medesimo possa successivamente creare problemi all'ordine e alla sicurezza pubblica, disattendere le regole di civile convivenza, ovvero violare i valori identitari dello Stato”. Stabilito il criterio generale, nella sentenza del Tar che ha preso in esame il caso specifico, si legge che “è stata compiuta una prognosi di inaffidabilità del richiedente, e la cittadinanza è stata conseguentemente negata, per la semplice risultanza di una denuncia a suo carico senza aver compiuto alcun riferimento sulle circostanze del fatto storico da cui poter desumere elementi idonei a sorreggere tale prognosi”. E infine: “Se anche le mere notizie di reato possono assumere rilevanza ostativa, in questo caso l'amministrazione avrebbe dovuto esplicitare le ragioni di interesse pubblico adottate per il diniego così da dimostrare di aver considerato tutti gli elementi”. Cosa che non è stata fatta: “Anche in questa sede – scrivono infine i giudici amministrativi – non è stato offerto alcun lume sulle vicende successive alla notizia di reato, richiamando semplicemente il rapporto informativo della questura di Prato senza aggiungere altro”.
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