Sulla maxitruffa da 43 milioni di euro ai danni dello Stato per la fornitura di camici e tute da destinare a medici e infermieri nel periodo più critico dell'emergenza Covid, pesa ora anche il giudizio del tribunale del Riesame. Sono state, infatti, respinte le richieste di revisione delle misure cautelari avanzate da quattro indagati che, insieme, rappresentano quella che gli investigatori ritengono 'la testa' della frode milionaria che sarebbe stata giocata sul secondo appalto pubblico più grosso gestito dal Commissario straordinario per l'emergenza sanitaria sul finire del 2020, aggiudicato al consorzio Gap di Roma. Una commessa ricchissima assegnata in un momento di bisogno estremo in cui tutte le forze erano concentrate a reperire dispositivi antiCovid che potessero mettere al riparo il personale sanitario dal rischio di contagio. Un bisogno tanto estremo da indire appalti pubblici in modalità semplificata, priva dei lacci della burocrazia.
Il Riesame ha confermato il carcere per Massimiliano Piccolo, indicato come amministratore di fatto del consorzio, e per Qiu Shiding, gestore di fatto della principale confezione che avrebbe realizzato i capi anticontagio; confermati gli arresti domiciliari e l'obbligo di dimora per il responsabile dell'area legale, Gianluca Forieri, e per l'amministratore unico di Gap. I giudici hanno dunque sposato la tesi accusatoria della procura di Prato (Lorenzo Gestri e Lorenzo Boscagli) già fatta propria dal giudice delle indagini preliminari che aveva accolto le richieste cautelari. Richieste che riguardavano anche Samuele Piccolo, fratello di Massimiliano e come lui indicato amministratore di fatto del consorzio, imprenditore con un importante trascorso politico nella Capitale, rinchiuso in carcere, Maurizio Berni, rappresentante tessile di Carmignano, ritenuto l'anello di congiunzione tra Gap e le confezioni di Prato, Montemurlo, Poggio a Caiano e Carmignano (avvocato Olivia Nati), e diversi imprenditori cinesi; a quest'ultimo, in seguito all'interrogatorio, il giudice delle indagini preliminari ha revocato i domiciliari sostituendoli con l'obbligo di dimora. Arresti domiciliari revocati anche ad un cinese che, nel corso dell'interrogatorio di garanzia, ha fornito importanti conferme investigative mostrando disponibilità a collaborare (avvocato Tiziano Veltri).
Una trentina in tutto gli avvisi di garanzia notificati all'inizio di luglio; sedici le misure cautelari: quattro in carcere, sei ai domiciliari, due divieti di esercitare uffici direttivi e quattro tra obblighi e divieti di dimora. Numerose le accuse mosse a vario titolo: violazione del divieto di subappalto in contratti con la pubblica amministrazione, frode nelle pubbliche forniture, truffa aggravata e indebita percezione di erogazioni ai danni dello Stato. Un elenco che si allunga con le contestazioni relative allo sfruttamento del lavoro e all'impiego di manodopera clandestina di cui sono chiamati a rispondere i confezionisti cinesi. Ed è l'unione di due ipotesi di reato – il divieto di subappalto e lo sfruttamento lavorativo – a formare, secondo le risultanze investigative, lo scheletro della maxitruffa: una commessa milionaria che il consorzio Gap, contravvenendo al contratto, avrebbe soddisfatto grazie agli operai delle ditte cinesi attive nel distretto pratese. A mettere in collegamento i due 'poli' sarebbe stato, secondo la procura che ha delegato le indagini alla Squadra mobile, il rappresentante tessile di Carmignano. Un intreccio di interessi e di soldi. Tanti soldi.
Le carte dell'inchiesta parlano di due milioni di camici monouso al prezzo di 6,10 euro per la Asl 2 di Roma, di 5 milioni e mezzo di tute sterilizzate al prezzo di 8,10 euro e di altrettante non sterilizzate al prezzo di 7,10 euro. Commesse con un comune denominatore: divieto di subappalto e obbligo di made in Italy. Ma il consorzio Gap, hanno ricostruito gli inquirenti, era poco più che una scatola vuota, per giunta formato da ditte spesso ignare e con adesioni retrodatate. Tutti quei capi sono stati sì prodotti ma per una parte in Albania e per una parte – la fetta più grossa – dagli operai sfruttati nelle ditte cinesi di Prato secondo il solito copione, quello della tristemente famosa 'massimizzazione del profitto' denunciata e perseguita a ripetizione dalla procura.