Sessanta. Il ventisettenne che sabato scorso si è impiccato nel reparto ‘media sicurezza’ della Dogaia, è il detenuto numero 60 che dall’inizio dell’anno ha trasformato la cella nella propria tomba. E’ un lutto senza fine, un abbraccio doloroso che idealmente stringe le carceri italiane con i detenuti che protestano, si ribellano, insorgono contro condizioni di vita obiettivamente difficili. E’ così da nord a sud. Pochi gli istituti che si salvano riuscendo a garantire quella umanità che diventa vivibilità. A pagare il prezzo non sono soltanto i reclusi ma anche gli agenti penitenziari: sei i casi di suicidio nel 2024, fino a oggi.
Prato ha alzato la voce. Il sessantesimo detenuto suicida in Italia, il terzo alla Dogaia negli ultimi otto mesi, diventa il megafono di un disagio che scavalca i muri di recinzione, che passa il filo spinato, che esce dalle pesanti porte in ferro con doppi vetri. Nella serata di oggi, lunedì 29 luglio, avvocati, associazioni che si occupano del mondo carcerario, volontari, educatori, comuni cittadini si sono dati appuntamento davanti al Palazzo di giustizia per urlare a gran voce ‘basta morti in carcere’. Anche la sindaca, Ilaria Bugetti, si è unita all’incontro, e con lei diversi assessori, consiglieri comunali di maggioranza e il presidente del Consiglio comunale, Lorenzo Tinagli.
Tra i presenti, che hanno dato vita ad un flash mob tenendo tra le mani una candela bianca, anche Andrea Borghini, avvocato del suicida numero 60: “Il fine pena era previsto per il 2032 – dice – la sua situazione non era semplice da un punto di vista psicologico, tanto che l’ultimo periodo di detenzione, prima di arrivare a Prato, lo aveva trascorso nel carcere di Massa dove era stato trattato da psichiatri e psicologi. Non si capisce se una volta arrivato alla Dogaia, il suo stato psichico sia stato tenuto in considerazione. Un ragazzo giovane che lascia una compagna e due bambini”. L’avvocato ha presentato una querela; la procura ha disposto l’autopsia.
Tanti gli avvocati che hanno risposto all’appello: “La situazione è insostenibile, lo abbiamo denunciato recentemente anche con una maratona oratoria. Un intervento è urgente”.
Condizioni difficili, molto difficili. Basti pensare al caldo di questi giorni: solo ora, e grazie alla generosità della Fondazione Cassa di Risparmio di Prato e del Lions Club Prato Malaparte, entreranno alla Dogaia 150 ventilatori. Non una soluzione ma il segno tangibile di una comunità sensibile che non resta sorda alle grida d’aiuto che arrivano dal carcere. “La questione è politica – il commento dell’avvocato Elena Augustin dell’Osservatorio carcere Camere penali toscane – servono provvedimenti: liberazioni anticipate, indulto o altro. Forse anche il fatto che questo Governo non ha dato corso alle soluzioni che erano state ventilate in passato, può aver contribuito a spegnere qualsiasi orizzonte per i detenuti”. Anche l’avvocato Gabriele Terranova, che per molto tempo si è occupato di carcere in seno alla Camera penale di Prato e ancora continua a farlo, parla di “interventi necessari e rapidi” per gli istituti penitenziari ormai allo stremo. Gli fa eco il presidente della Camera penale pratese, Federico Febbo: “Il dettato costituzionale deve essere rispettato, stiamo parlando di persone affidate allo Stato e lo Stato non può fare finta di niente”.
E’ una storia antica, ormai, quella delle carceri dimenticate: sovraffollamento, mancanza di manutenzione, spazi angusti, servizi scadenti, caldo soffocante d’estate e freddo d’inverno, pochi psicologi e psichiatri, poche occasioni di lavoro, infestazioni sempre più frequenti di cimici e blatte. “Un mio assistito si è ammalato di tubercolosi in carcere e ha trascorso un lungo periodo in ospedale”, la testimonianza di una avvocato. Un problema antico diventato pesante eredità che ogni Governo degli ultimi venti e forse anche trenta anni ha ricevuto dal precedente e lasciato al successivo.
Il richiamo, per quanto riguarda la Dogaia, è anche ad una sistemazione definitiva delle cariche: ad oggi il direttore fa la spola tra Prato e il cosiddetto ‘Solliccianino’ a Firenze e non c’è neppure il comandante effettivo della polizia penitenziaria. Figure fondamentali per la gestione della struttura. In mezzo a tutto questo, la carenza di agenti costretti a turni lunghissimi e a fronteggiare situazioni delicate come la rivolta di venerdì sera quando diversi detenuti si sono rifiutati di rientrare in cella. Perché alla Dogaia, così come nelle altre carceri, i detenuti, per buona parte della giornata, stanno a cella aperta e circolano liberamente nei corridoi della sezione nella quale sono rinchiusi. Conseguenza della ‘sentenza Torreggiani’, scritta nel 2013 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per sanzionare l’Italia per il problema del sovraffollamento; la risposta è stata una maggiore libertà di movimento e, così facendo, la garanzia di maggiore spazio per ciascun detenuto.
La sindaca Bugetti, che ha scritto al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha ribadito la necessità di soluzioni per il carcere della Dogaia e gli istituti penitenziari in generale. Da più parti si parla delle strutture carcerarie come ‘polveriere’ che potrebbero esplodere da un momento all’altro. La tensione è alle stelle e Prato non fa eccezione. Tanta la consapevolezza e tanta la cautela che il ritrovo di stasera, previsto inizialmente davanti al cancello del carcere, è stato spostato in piazzale Falcone e Borsellino. Gli organizzatori hanno accolto la richiesta della direzione, prima ancora che arrivasse il parere contrario della questura. Il rischio, per niente remoto, era quello di un’agitazione di massa nelle sezioni se i detenuti avessero visto dalle loro celle la folla riunita per chiedere tutele e migliori condizioni di vita nelle strutture carcerarie. (nadia tarantino)
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