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Poliziotto sopravvissuto a Capaci si racconta: “Ho accettato di fare la scorta a Falcone perché lui era il mio Che Guevara”


L'associazione nazionale Polizia di Stato porta a Prato gli agenti che hanno fatto la scorta a Giovanni Falcone a a Antonino Caponnetto. Esperienze diverse ma accomunate dallo stesso senso del dovere nonostante i rischi altissimi


Eleonora Barbieri


C’è tutto l’orgoglio e la commozione di aver scortato due giganti della lotta alla mafia nello sguardo e nelle parole di Angelo Corbo e Giampiero Gregori. Ieri sera, 4 marzo, alla sede dell’associazione nazionale Polizia di Stato, organizzatrice della serata, hanno incontrato colleghi, in servizio o in pensione, e semplici cittadini, alla presenza dell’assessora alla sicurezza Flora Leoni, per raccontare la loro storia di uomini in prima linea, svelare qualche segreto e sfatare anche i luoghi comuni sulla mafia siciliana, sul maxi processo e sulle stragi. Corbo era nella scorta di Giovanni Falcone ed è uno dei sopravvissuti a Capaci dove invece persero la vita il magistrato, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta. Da allora vive nel fiorentino e dedica il suo tempo a scrivere libri e a incontrare gli studenti per diffondere la cultura della legalità partendo proprio da quel periodo storico e dal sacrificio di uomini di Stato che fino alla fine, nonostante i rischi altissimi, hanno fatto il loro dovere contro la mafia. Incalzato dalle domande del collega della questura di Prato, Armando Albano, dà il via alla sua storia personale di testimone e protagonista di quel tempo che è un pezzo fondamentale della storia contemporanea del nostro Paese. Quel 23 maggio 1992, Corbo era nella terza delle tre auto partite da Punta Raisi e dirette a Palermo. Seguiva quella guidata da Falcone, preceduta dall’altro mezzo blindato con a bordo gli altri tre agenti quando all’altezza di Capaci 600 chili di tritolo hanno fatto saltare in aria l’autostrada. Momenti indelebili nella mente di Corbo: “Mentre procedevamo verso Palermo notammo che l’auto di Falcone rallentò notevolmente. – ha raccontato – Poi abbiamo scoperto il perché: voleva dare il mazzo di chiavi per il giorno dopo all’autista seduto dietro e spense il motore in corsa. La moglie lo rimproverò e allora rimise in moto subito. Questo rallentamento ha fatto sì che la loro auto non si trovasse esattamente sul punto dell’esplosione, come la prima di scorta, ma che invece si schiantasse contro il muro di asfalto che gli si è alzato contro come conseguenza dell’esplosione. Anche la nostra auto è stata investita dall’onda d’urto ma siamo riusciti a uscire. Ci è venuto automatico, prendere le armi e circondare l’auto del dottor Falcone che era ancora vivo. Perché quello era il nostro lavoro, fare da scudi umani al dottor Falcone nella consapevolezza che chi aveva ordito tutto ciò ne voleva la morte e non poteva permettersi che sopravvivesse. Che fine hanno fatto i rullini fotografici sequestrati sul post a un reporter da un sedicente poliziotto che non ha rilasciato alcun verbale? C’era immortalato qualcuno che nessuno doveva vedere? Cosa è successo dopo quando è stato portato in ospedale non lo sappiamo”. Corbo non ha peli sulla lingua. Parla di squadre dimezzate negli anni tanto da dover ricorrere a colleghi assegnati ad altre scorte o ad altre mansioni per riuscire a coprire ferie, riposi e malattie dei soli 12 agenti, divisi in due squadre da 6, assegnati a Falcone. Quel 23 maggio ad esempio mancavano 4 dei 6 agenti assegnati a Falcone, compreso il caposcorta, sostituiti all’ultimo da altri colleghi. Questo a testimonianza di un clima pesante a Palermo contro un giudice “rompiscatole” e scomodo. Un clima che si respirava fuori ma anche dentro lo Stato. Lo stesso Corbo non aveva alcuna esperienza quando era stato reclutato per scortare Falcone dopo l’attentato all’Addaura: “Nessuno ci voleva andare. – racconta – Avevano paura. Chiamarono me che aveva 24 anni e appena 2 anni e mezzo di servizio senza aver fatto il corso ad Abbasanta. Accettai perché lui era il mio Che Guevara. Sono nato nel quartiere La Noce. Ho dovuto subire di tutto da bambino e da ragazzo, tanto che ho scelto di fare il poliziotto proprio come risposta a tanta arroganza e perché profondamente colpito dall’uccisione di un ragazzino da parte della mafia. Per me servire Falcone era un onore”. E qui Corbo sfata una leggenda metropolitana: “Falcone non amava la scorta, anzi non la sopportava per niente. E dunque non aveva l’atteggiamento paterno di Borsellino e Caponnetto. Credeva fermamente in quello che faceva e pretendeva il massimo da tutti”.

Diverso il rapporto tra il giudice Antonino Caponnetto e Giampiero Gregori, suo caposcorta. Un racconto che coinvolge anche gli altri tre colleghi presenti alla serata pratese: Salvo Punzo, Mario Albanese e Lucio Di Leonardo. “Caponnetto, dopo Falcone e Borsellino, era il terzo obiettivo. – racconta Gregori – Quando ci è stato chiesto di proteggerlo abbiamo detto subito sì nella consapevolezza che siamo di fronte a persone che hanno dato tutto allo Stato e alla legalità. Lui si è messo completamente nelle nostre mani. Non faceva una mossa senza prima guardarmi e avere un cenno di assenso. Il nostro compito era farlo morire di vecchiaia e ci siamo riusciti. Un giornalista che ci ha intervistato pochi giorni dopo la morte del giudice ha titolato: “E’ morto di vecchiaia: missione compiuta”. Ed è proprio così. Lui e la moglie facevano parte di noi. Abbiamo continuato a frequentare quella casa anche dopo la morte di Caponnetto per una pizza, una grigliata e qualche chiacchiera con la moglie. Si è creato un legame fortissimo tra noi e ci siamo sentiti di portare avanti un lavoro culturale sulla legalità nelle scuole anche attraverso il teatro. Un dovere verso una persona che ha dato tanto a questo Paese”.

Inevitabile la domanda sulla trattativa Stato-mafia, una delle pagine più buie della storia repubblicana italiana soprattutto per chi ha pagato o ha rischiato di pagare al prezzo della sua vita la lotta contro la criminalità organizzata. Per Corbo “E’ aberrante che lo Stato si cali le braghe con i mafiosi. Una sconfitta doppia”. Per Gregori “lo Stato con la S maiuscola non tratta mai con la mafia. Senza se e senza ma. Vuol dire mettersi al pari dei mafiosi”. I carabinieri del Ros avrebbero potuto rifiutarsi? Risponde Corbo: “Esiste il libero arbitrio. Se lo ritenevano illegittimo avrebbero dovuto dire no. Certo, lo avrebbero fatto altri, questo sì”.

Una serata densa di emozioni e di commozione, utile ad accompagnare il cammino nella piccola grande battaglia quotidiana per la legalità a cui ciascuno di noi è chiamato.

Eleonora Barbieri

Edizioni locali: Prato
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