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Nel 2008 non versò i contributi previdenziali, negata la cittadinanza italiana all’imprenditore


Il ministero dell'Interno ha respinto la richiesta e lo stesso ha fatto il Tar a cui l'uomo, residente a Prato, ha presentato ricorso. I giudici: “Tra i valori c'è anche quello di contribuire al progresso economico del Paese”


Nadia Tarantino


Tra marzo e novembre del 2008 non versò i contributi previdenziali ai suoi dipendenti e se pure da allora sono passati 16 anni, la macchia c’è ed è ingombrante al punto di spegnere il sogno della cittadinanza italiana. Succede ad un imprenditore pakistano residente a Prato: i giudici del Tar del Lazio hanno respinto il suo ricorso contro il ministero dell’Interno che nel 2019 ha bocciato la richiesta di diventare un cittadino italiano a tutti gli effetti. No. No anche per il tribunale amministrativo che ha condiviso le conclusioni del Viminale: “Scarsa aderenza ai valori della comunità perché tra questi vi è anche quello di contribuire al progresso economico del Paese, inclusa la partecipazione agli oneri connessi allo Stato sociale”.
I fatti. Nel 2012 l’imprenditore viene condannato dal giudice delle udienze preliminari del tribunale di Prato per omesso versamento delle ritenute previdenziali; la sentenza diventa irrevocabile a febbraio 2013. Da lì a poco interviene la depenalizzazione del reato per gli importi inferiori a 10mila euro e a beneficiarne è anche l’imprenditore che, a distanza di cinque anni dalla contestazione, torna ‘pulito’.
Nel 2016, quando di anni da quell’incidente di percorso ne sono passati già 8, la richiesta di cittadinanza italiana. L’uomo rimbalza contro la discrezionalità del ministero che vede in quella macchia il segno della “inaffidabilità” e della “non compiuta integrazione nella comunità nazionale”. E’ il 2019. La vicenda giudiziaria è sempre più lontana ed è l’unico motivo che non consente all’imprenditore di realizzare il desiderio di essere cittadino italiano. Non resta che ricorrere al Tar. Gli avvocati Enrico Martini e Roberto Bartolini preparano le carte e argomentano sottolineando che il loro assistito ha fatto tutto quello che doveva per estinguere il reato in seguito alla depenalizzazione, che ha un lavoro stabile, una casa e una famiglia radicata nel tessuto sociale cittadino. La decisione, però, non cambia. Per i giudici non è solo una questione di requisiti (assenza di precedenti penali, sussistenza di redditi sufficienti a sostenersi, condotta di vita che esprime integrazione sociale e rispetto dei valori di convivenza civile): “La concessione della cittadinanza deve rappresentare il suggello sul piano giuridico di un processo di integrazione che nei fatti sia stato già portato a compimento, la formalizzazione di una preesistente situazione di cittadinanza sostanziale che giustifica l’attribuzione dello status giuridico”.
Il Tar fa suo il giudizio del ministero dell’Interno e aggiunge: “A chi fa istanza di cittadinanza italiana si richiede non solo l’effettivo inserimento nella società, ma anche che sul piano dei valori mostri, indefettibilmente, una convinta adesione ai valori fondamentali dell’ordinamento di cui chiede di far parte”. Quella macchia, insomma, per quanto è vecchia tanto resiste. Gli avvocati non hanno intenzione di arrendersi: il caso è avvincente e si presta a studi, interpretazioni e discussioni. La vicenda potrebbe continuare. (nadia tarantino)

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