La scaffalatura in metallo, per quanto dotata di scale, piedistalli e corridoi di accesso ai vari piani, non è un’opera edilizia che comporta un incremento della superficie calpestabile oppure una modifica o addirittura una trasformazione dell’edificio: è una struttura mobile che non consente la permanenza stabile di persone, che non rappresenta uno spazio ‘vivibile’ e che, per questo, non necessita di autorizzazioni. E, non necessitando di autorizzazioni, non può essere soggetta a ordini di demolizione come quello che il Comune di Prato, a settembre dello scorso anno, ha notificato ad una concessionaria d’auto con sede in via dei Pioppi, a San Giusto. La questione è finita davanti ai giudici del Tar che hanno dato ragione all’azienda: la scaffalatura non si smonta, la scaffalatura resta dove è. Non solo: il Comune deve pagare le spese processuali: quattromila euro.
La vicenda, che già era approdata davanti ai giudici amministrativi che avevano accolto la richiesta della concessionaria di sospendere l’ordinanza di demolizione, parte da un antefatto: a luglio 2021, l’azienda presenta una Scia per la realizzazione di un soppalco in muratura per aumentare l’area di stoccaggio dei ricambi auto così come previsto dal contratto di concessione che richiama standard precisi. Ad agosto il Comune interviene e blocca tutto rifacendosi ad un parere del Genio Civile che stabilisce che quel tipo di opera è soggetto alla sua valutazione. Ecco che la concessionaria annulla la Scia e opta per l’alternativa: una scaffalatura metallica, composta da elementi modulari, collegati da corridoi di servizio. A ottobre il Comune si rifà vivo e ordina la demolizione e il ripristino degli ambienti entro novanta giorni. La concessionaria non si arrende e affida le sue ragioni agli avvocati Andrea Grazzini e Marco Del Pinto che insistono sul fatto che non si tratta di opera edilizia. L’amministrazione comunale, dal canto suo, porta avanti il convincimento: la scaffalatura è una replica della richiesta contenuta nella Scia e quindi va demolita perché così dice anche il Genio Civile. Il Comune, in altre parole, qualifica l’opera come un intervento di ristrutturazione edilizia cosiddetta pesante che comporta una modifica della volumetria dell’edificio. “Tale qualificazione – scrivono i giudici del Tar – è palesemente errata essendo stata realizzata una modifica interna all’edificio, senza incremento della volumetria complessiva, senza modificazione della sagoma, del prospetto, tantomeno senza demolizione e ricostruzione dell’edificio”. A persuadere il Tar sono anche le foto finite nel fascicolo processuale: “Di fatto – si legge nella sentenza – è ravvisabile solo una scaffalatura metallica, dotata di scale, piedistalli e corridoi di servizio utilizzabili per l’accesso ai vari ripiani, senza possibilità di identificare alcuna superficie accessoria idonea al soggiorno stabile delle persone”. E ancora: “Si deve concludere che le opere contestate siano riconducibili ad un mero arredo interno, funzionale al deposito delle merci in quanto privo di rilevanza urbanistica ed edilizia, pertanto non sanzionabile”. Insomma, ha vinto la scaffalatura. (nt)
La lite per la scaffalatura finisce al Tar che dà ragione alla concessionaria e torto al Comune
Gli uffici comunali l'avevano classificata come opera edilizia abusiva e ordinato la demolizione ma per i giudici amministrativi è soltanto un arredo
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