Bisognosa di cure mediche urgenti già prenotate (e pagate) all’ospedale di Prato, una diciassettenne eritrea si è vista negare l’ingresso in Italia dall’ambasciata ad Asmara che, pur in presenza di tutta la documentazione sanitaria, ha paventato il ‘rischio migratorio’, vale a dire il rischio che, alla scadenza del visto, la ragazza e i suoi accompagnatori – la mamma e la sorellina di 3 anni – non facessero ritorno nel loro paese. Il Tar del Lazio ha revocato il diniego consentendo alla giovane di arrivare a Prato per sottoporsi a tutte le visite e cure oculistiche garantite al Santo Stefano. I giudici amministrativi hanno sonoramente bacchettato il ministero degli Affari esteri e in particolare l’ambasciata d’Italia ad Asmara recependo in pieno il ricorso proposto tramite l’avvocato l’avvocato Eleonora Chiaramonti circa la “carenza, insufficienza e inadeguatezza delle motivazioni del diniego e dell’ingiustizia in cui sarebbe incorso l’ufficio diplomatico nel valutare l’istanza nonostante la documentazione sanitaria”. I giudici sono andati anche oltre: “L’ufficio – si legge nella sentenza – prima di emettere una decisione che implica un interesse costituzionalmente sensibile come il diritto alla salute di una persone giovanissima, avrebbe dovuto esercitare il soccorso istruttorio”, e, cioè, avrebbe dovuto chiedere ulteriori spiegazioni per fugare qualsiasi dubbio circa la veridicità dei motivi alla base della richiesta del visto per entrare in Italia.
Era stata la mamma della ragazza, nei mesi scorsi, a presentare la domanda e, di fronte al ‘no’, a avviare l’azione legale per ottenere l’accesso alle cure mediche convinta di aver presentato tutta la documentazione provvista addirittura di una integrazione ‘volontaria’: certificati medici rilasciati dalle strutture sanitarie eritree, relazione medica dello specialista in oculistica dell’ospedale di Prato, preventivo di spesa rilasciato dalla Asl Toscana centro, ricevuta di avvenuto pagamento delle spese preventivate, dichiarazione di ospitalità presso una casa di accoglienza di Firenze per tutto il periodo di soggiorno autorizzato in Italia, il contratto di lavoro e l’estratto del conto corrente bancario del padre della ragazza, il certificato di matrimonio e lo stato di famiglia per attestare l’autenticità del grado di parentela, copia del documento di identità e del contratto di lavoro di uno zio materno, residente in Gran Bretagna, quale sostenitore della spese per curare la nipote.
Il semaforo rosso dell’ambasciata è diventato verde quando la questione è arrivata sui tavoli del Tar del Lazio: “Questo Tar ritiene che, a fronte di una documentazione completa, di un quadro professionale e familiare rassicurante, di un quadro clinico di evidente gravità, la motivazione dell’ufficio diplomatico sia inconsistente”. E come se ciò non bastasse, i giudici hanno anche valorizzato un altro dato: “Non si ravvisa il rischio migratorio anche perché la madre della paziente lascerebbe in Eritrea non solo il marito ma anche altri tre figli”.
Il tribunale amministrativo ha condannato il ministero degli Affari esteri a pagare alla famiglia eritrea mille euro di spese processuali. (nadia tarantino)
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