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Quando la fame è emotiva e si mangia per rabbia, dolore e frustrazione


Il problema dell'obesità nei giovani deve essere curato nell'anima prima che nel fisico. Non sigilliamo la questione con giudizi schiaccianti e colpevolizzanti. Dietro l'insuccesso può nascondersi una spietata richiesta verso se stessi, uno spietato perfezionismo.


Redazione


“La bocca sollevò dal fiero pasto…. Poi cominciò: "Tu vuo’ ch’io rinovelli disperato dolor che ’l cor mi preme già pur pensando, pria ch’io ne favelli….”
 
Non solo per fame si mangia. Si mangia per noia, per abitudine, per tradizione: quando attorno alla tavola si radunano usanze, riti, affetti. 
Si mangia per rabbia, dolore, disperazione. Il cibo, potente anestetico emozionale, modula stati emotivi, obnubila e permette di sopportare ciò che sopportabile non è. Aspettative tradite, appuntamenti con se stessi e con la vita mancati. Il costo da pagare è alto: sovrappeso o obesità con rischi medici e crudeli conseguenze relazionali.
Prese in giro che inchiodano ad un vissuto di inadeguatezza o indegnità, che rimangono indelebili, fanno precipitare nella paura e costringono ad un’irrinunciabile difesa. Ma soprattutto il perpetuarsi dell’antica ferita: quella di non essere visti, di non essere raggiunti nella solitudine. E così si continua a mangiare. 
E lei, come altri che timidamente arrivano in terapia, avrebbe voluto mangiarsi il mondo intero se solo fosse servito a non sentire più niente…a non avvertire quel vuoto incolmabile, quella voragine che ogni volta puntualmente la trascina a quando un abbraccio era tanto desiderato quanto disatteso. 
Una fitta forte allo stomaco la riporta al tempo in cui i suoi occhi cercavano uno sguardo dentro il quale potersi riposare, potersi lasciar andare…Ma venivano trovate solo assenze, solo mancanze. 
Perché il passato non diventa passato? Perché rimane presente implacabile? "Il dolore morde l'anima e fa più male dello stomaco, perché l'anima fa male dappertutto quando si rompe." Disturbo da alimentazione incontrollata o fame emotiva le hanno detto. A lei non importa cosa sia. Sa solo che inizia sordo per diventare ferita straziante, insostenibile lacerazione dell'essere. 
E allora mangia, mangia per solitudine, per abbandono, mangia per disprezzo, per disgusto. Inghiotte la vita per non sentire la morte, finché la nausea prende il sopravvento rendendo poi feroce il rimorso, che sferra il suo colpo mortale lasciandola impotente, inerte, immobile. 
Dolore dopo dolore, boccone dopo boccone, costruisce la sua armatura fatta di grasso. Grasso che repelle, grasso che respinge. Evita la vicinanza per non sentire la distanza. Ma le difese sono pesanti da portare e sopportare. Decide di chiedere aiuto: sulle braccia ha segni di tagli, fatti per anestetizzare quelli del cuore.  Negli occhi altre ferite. Apre la bocca ma non esce alcuna parola. Sul suo viso scendono lacrime e il mascara si scioglie assieme alla tensione. 
Chissà quanta fatica ha fatto finora, quanti pregiudizi sopportati, quante stigmatizzazioni subite. Sì perché lo stereotipo del "grasso" è quello paradossalmente sottostimato, ancora una volta "non visto" seppur ingombrante.
La crudeltà dell'incomprensione si aggiunge alla crudeltà dei commenti: grasso è pigro, è indolente, grasso è inconcludente. Come inconcludenti sono tutte le terapie fatte finora: innumerevoli diete con puntuale recupero dei Kg persi: costante richiamo al senso di fallimento che la lascia ogni volta senza attese e senza speranza. Sfiducia, sconforto, scoraggiamento. 
"Le diete fanno ingrassare" le hanno detto, ma lei non ci crede. Continua a pensare che l'insuccesso dipenda dalla sua scarsa volontà, dalla sua poca determinazione. Per dimostrare agli altri e soprattutto a se stessa di concludere qualcosa si è fatta togliere addirittura un pezzo di stomaco …..  " Vuoi dimagrire? mangia meno e muoviti di più". Quante volte se lo è sentito ripetere! " Fosse semplice l'avrei già fatto no?!" riesce finalmente a dire.
Mangiare non è mettere qualcosa in bocca. In questo gesto c'è tutta la persona, tutta la sua angoscia, la sua solitudine, tutta la sua storia. Gli occhi si riempiono di lacrime, il silenzio di singhiozzi.  
In una clinica per i disturbi del comportamento alimentare, anno dopo anno, vedo cicatrici e ferite ancora aperte. Prescrizioni e psicoeducazione non sono bastati. Tanto meno hanno inciso interventi chirurgici focalizzati sull'organo anziché sulla persona. Trattamenti neutrali e asettici, benché corretti, non hanno scalfito né potranno colpire l'anima. E loro rimangono lontani, irraggiungibili, persi nei  tanti corridoi  della mente.
Occorre demolire, stracciare i tanti pregiudizi che appesantiscono la condizione del sovrappeso e dell'obesità. 
Non lasciamoci ingannare dai sorrisi, da un atteggiamento apparentemente gioviale e aperto. Dietro un'ostentata sicurezza può nascondersi la vulnerabilità più marcata.  Non sigilliamo la questione con giudizi schiaccianti e colpevolizzanti.  Dietro l'insuccesso può nascondersi una spietata richiesta verso se stessi, uno spietato perfezionismo. 
Alleniamo i nostri ragazzi al rispetto, educhiamoli ad astenersi dal giudicare ciò che appare. Non sempre ciò che appare è.
Occorre in punta di piedi entrare nel loro dolore, sostare con loro fino al ciglio del baratro, fino all'orlo del vuoto interiore. Occorre vedere oltre, raggiungere, incontrare ciò che grasso non è.  
Teresa Zucchi
Edizioni locali: Prato
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è una testata registrata presso il Tribunale di Prato
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Redazione: Via del Biancospino, 29/b, 50010
Capalle/Campi Bisenzio (FI)

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