Guardie giurate accusate di omicidio, il giudice spiega l'assoluzione e smonta tutta l'indagine
Depositate le motivazioni della sentenza che lo scorso aprile ha assolto i due imputati dall'accusa di aver picchiato un paziente al pronto soccorso provocandone la morte. Il tribunale stigmatizza la ricostruzione della procura: “Il pestaggio non è stato dimostrato. Verosimile, compatibile e coerente la ricostruzione di un'ipotesi alternativa: caduta accidentale”
Non furono le botte ma le conseguenze di una caduta accidentale ad uccidere il sessantenne che la sera del 4 ottobre 2017 fu trovato ferito accanto alla porta del pronto soccorso dell'ospedale Santo Stefano dove si era presentato chiedendo di essere visitato. Ne è convinto il giudice delle udienze preliminari del tribunale di Prato, Francesco Pallini, che in 155 pagine ha motivato l’assoluzione delle due guardie giurate accusate dal pubblico ministero Valentina Cosci di omicidio preterintenzionale (avvocati Giuseppe Nicolosi, Michela De Luca, Antonio Cozza). A sette mesi dal processo con rito abbreviato, a più di quattro anni dal fatto e a più di tre dal decesso (l’uomo, che rimase paralizzato e che già era affetto da precedenti patologie, morì il 12 ottobre 2018 per una insufficienza cardio respiratoria), è stata depositata la sentenza che non solo smonta le indagini ma le critica apertamente.
“Nessun elemento obiettivo che attesti l’aggressione è stato cercato subito dopo o acquisito, né per attribuire tale fatto a entrambi gli imputati o ad uno solo e a quale di essi, né per riscontrare o escludere una tale ricostruzione in termini di aggressione – scrive il giudice – mancanza di dati obiettivi di riscontro (testimoni oculari, videocamere, confessioni e ammissioni degli imputati) nel rispetto dei principi processuali in tema di adempimento dell’onere della prova in capo alla pubblica accusa in ordine alla prova della penale responsabilità. Anzi, i dati appaiono pienamente coerenti e conformi con l’assolutamente verosimile, compatibile e coerente ricostruzione delle lesioni e della morte quali cause di una caduta accidentale”.
Il giudice ha ancorato ogni tassello della sua convinzione alle tre perizie medico-legali che hanno fornito altrettante chiavi di lettura, alle testimonianze raccolte dalla polizia, alle dichiarazioni rilasciate dalla vittima in sede di incidente probatorio e al comportamento degli imputati che hanno sempre respinto ogni addebito senza contraddizioni. Il risultato è un insieme di lunghe e articolate riflessioni che restituisce una ricostruzione alternativa a quella della procura.
Nelle 155 pagine si sottolinea a più riprese il ritardo – non si parla di qualche mese ma di un anno e mezzo – con cui è stata fatta una serie di verifiche e la totale assenza di alcune “informazioni rilevanti e decisive per l’accertamento dei fatti e delle eventuali responsabilità”. Qualche esempio: le due guardie non furono visitate per riscontrare eventuali ferite riconducibili ad una aggressione, le loro divise e le loro scarpe non furono sequestrate subito, non furono fatti esami sulla vittima per rilevare tracce di alcol o di stupefacenti, non fu immediatamente esaminata “la scena del crimine”.
Il giudice ha recepito intere parti della tesi difensiva, soffermandosi, per esempio, sull’esito dell’incidente probatorio durante il quale la vittima raccontò cosa accadde quella sera. Un particolare su tutti, uno dei tanti: “Una guardia mi picchiava e altre dieci o dodici guardavano indifferenti”. Affermazione smentita da tutto e da tutti e le motivazioni della sentenza vanno oltre: “Frammenti di narrazioni, in parte con ricordi smentiti e con vuoti di memoria su determinati momenti o accadimenti e con l’espresso esternato timore della parte offesa (
la vittima, ndr) di ricordare una cosa per un’altra”.
Diverse le pagine dedicate alla ‘supertestimone”, la dottoressa che soccorse l’uomo dopo le richieste di aiuto arrivate proprio dalle due guardie. La dottoressa coprì il turno 20-8, soccorse l’uomo intorno alle 4, rilasciò le prime dichiarazioni alla polizia alle 9.12: “Immediatamente provvedevo a curare il paziente che non era in grado di riferire in merito all’accaduto. Non ho altro da aggiungere”. Un’integrazione però arrivò circa tre ore dopo e riguardò “l’aggressione con calci e pugni su tutto il corpo ed il viso da due vigilanti”. La dottoressa disse che era stato il paziente, alle 8.30 di quella mattina, a riferirle del pestaggio. Il giudice non solo insiste sul fatto che il corpo della vittima non mostrava i segni del pestaggio e che, quando fu alzato dal pavimento, indossava ancora gli occhiali, ma pone una domanda: perché la dottoressa non ha parlato subito dell’aggressione? Ancora il giudice: “La brevità del tempo trascorso tra la ricezione delle confidenze e il primo verbale delle 9.12, tenuto conto peraltro che l'intervento della polizia era stato determinato dalla chiamata al 113 della stessa dottoressa e che era stata la stessa dottoressa ad occuparsi della parte offesa nell'esercizio delle sue mansioni la notte prima, integra una contraddizione ed una incongruenza di tale portata e rilevanza che non può che minare gravemente la genuinità ed attendibilità del narrato della testimone”.
La ricostruzione del giudice delle udienze preliminari è meticolosa e non tralascia niente, neppure che c'era stato un diverbio tra i due vigilanti e il paziente particolarmente agitato. Il passaggio – tra i più delicati – è stato esaminato con scrupolo e alla fine il giudice non ha rilevato nessun collegamento con quello che poi accadde.
“Non si rinvengono reali smentite all’ipotesi ricostruttiva alternativa – scrive il giudice riferendosi alla caduta accidentale della vittima – ma ciò che rileva maggiormente, a fondamento della presente sentenza assolutoria, è che non è stata riscontrata obiettivamente l’ipotesi accusatoria nei confronti degli imputati a seguito delle pur prolungate e articolate indagini compiute”.
Le due guardie sperano ora di tornare in possesso del porto d’armi, requisito indispensabile per ricominciare a lavorare.
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